Il principio generale in materia di successioni ereditarie è che il pagamento dei debiti del defunto è ripartito fra i coeredi in proporzione delle loro quote ereditarie.
Ciò rappresenta un’eccezione alla regola della solidarietà tra condebitori e significa, in sostanza, che il creditore del defunto si può rivolgere ad ogni coerede per chiedere il pagamento della sola parte del complessivo debito corrispondente alla quota di quel coerede.
Conseguentemente, nel caso in cui uno degli eredi rimanga insolvente, il creditore non può, in alcun modo, addossare agli altri la parte di debito inadempiuta.
Affinché, però, un soggetto possa essere chiamato a rispondere dei debiti ereditari, pur soltanto per la sua quota, è indispensabile un presupposto: che egli abbia accettato l’eredità.
L’accettazione può avvenire in maniera espressa (tramite apposita dichiarazione in un atto pubblico o in una scrittura privata) oppure tacita (compiendo un atto che presuppone la volontà di accettare e che non si avrebbe il diritto di fare se non nella qualità di erede, come, ad esempio, vendere un bene immobile facente parte dell’asse ereditario), nonché nelle particolari ipotesi descritte dagli artt. 485 e 527 c.c.
Da quanto esposto sopra, risulta evidente che il creditore del soggetto defunto può correttamente rivolgersi ai suoi potenziali eredi (tecnicamente detti “delati”) soltanto nel caso in cui questi abbiano accettato l’eredità, secondo uno dei modi previsti dalla legge.
Le conclusioni a cui si è appena giunti sono state fatte proprie da varie pronunce della Corte di Cassazione, in particolare in ambito tributario; la Corte ha difatti sottolineato che, in seguito all’apertura della successione, la delazione (ovvero “l’offerta” del patrimonio del de cuius ai soggetti legittimati a diventare eredi) è un presupposto necessario ma non sufficiente all’acquisto della qualità di erede, la quale si consegue solo con l’accettazione dell’eredità.
Entrando nello specifico dei casi esaminati da parte dei Giudici di legittimità, questi evidenziavano come la notifica degli avvisi di accertamento nei confronti dei semplici chiamati all’eredità del contribuente che aveva omesso di presentare le dichiarazioni dei redditi e nel frattempo era deceduto, non fosse sufficiente ad attribuire ad essi la qualità di eredi, che consegue soltanto, lo si ripete, in seguito all’accettazione dell’eredità.
Ancor più evidente è l’illegittimità della condotta da parte dell’Agenzia delle Entrate nelle ipotesi in cui i chiamati abbiano rinunciato all’eredità.
Difatti, per legge, chi rinuncia all’eredità è considerato come se non vi fosse mai stato chiamato: questo effetto retroattivo della rinuncia non consente all’avviso di accertamento, emesso nei confronti dei chiamati all’eredità del contribuente inadempiente defunto, di acquisire definitività nel caso di mancata impugnazione. Men che meno farà assumere la qualità di eredi a tali soggetti.
L’onere della prova in ordine all’assunzione della qualità di erede oppure alla invalidità ed all’inefficacia della rinunzia all’eredità è a carico del creditore che pretende il pagamento del debito nei confronti degli eredi.
Nei casi posti all’attenzione della Cassazione, il creditore (l’Amministrazione Finanziaria) non ha fornito questa prova, con la conseguenza di risultare soccombente nel giudizio.
Concludendo, si può affermare che è illegittima la cartella di pagamento (notificata sulla base di avvisi di accertamento relativi a imposte non versate) nei confronti dei semplici chiamati all’eredità del contribuente deceduto, i quali non abbiano accettato l’eredità ed, anzi, abbiano rinunziato alla stessa.
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