“Verità su quanto avvenuto in relazione alla perdita di idrocarburi dal Centro Olio di Viggiano. Prefiguriamo il futuro anziché continuare ad inseguire il trapassato remoto”.
A due anni di distanza dall’ufficializzazione della perdita di un ingente quantitativo di idrocarburi da uno o più serbatoi del Centro Olio Val d’Agri, permangono motivati e ragionevoli dubbi su quando Eni abbia iniziato a perdere greggio e anche sul reale quantitativo di idrocarburi disperso nel terreno. Dubbi moltiplicati e amplificati da quanto è dato leggere nel “parere tecnico” espresso da Dipartimento geologico di Ispra nel dicembre 2018, allegato alla DGR n. 47 del gennaio 2019. Nella sopra citata relazione i tecnici Ispra, riferendosi alla presenza di Manganese riscontrata nelle acque sotterranee dell’area industriale di Viggiano, tra l’altro scrivono: “La presenza diffusa di Manganese nelle acque di falda, per la quale l’Azienda dichiara che possa essere fondo naturale, è comunque una probabile conseguenza connessa alla presenza di idrocarburi in falda”.
Nelle falde acquifere dell’area industriale di Viggiano è infatti emersa, dai monitoraggi effettuati nei due anni successivi all’ufficializzazione della perdita, una presenza di manganese di gran lunga superiore ai limiti previsti dall’Allegato 2, Tabella 5, Parte IV, Titolo V del Dlgs 152/2006.
Ma se i dati relativi alla presenza di manganese in quantità di gran lunga superiori alle CSC (Concentrazioni soglia di contaminazione) relativi al biennio 2017-2018 sono ormai noti, non tutti sanno che la presenza di Manganese nelle acque oltre i limiti previsti dalla legge era già emersa nel triennio 2009-2010-2011, senza che la cosa facesse scattare il benché minimo campanello di allarme. Un campanello che allora provai a far scattare, beccandomi la consueta accusa di allarmismo.
Per questa e altre buone ragioni, per tornare a porre domande che ad oggi non hanno ricevuto risposte o risposte convincenti, sabato 16 marzo a partire dalle ore 10.30, in occasione della visita del Ministro Salvini, terrò un sit-in e un WaLK AROUND fuori all’ingresso del COVA.
L’occasione sarà propizia per consegnare al Ministro dell’Interno un promemoria.
In Basilicata non vogliamo ulteriori pozzi, permessi di ricerca e concessioni di coltivazione. La Basilicata non può più essere terra di conquista per multinazionali che hanno, tra l’altro, mostrato un’assoluta mancanza di rispetto per un territorio delicatissimo dal punto di vista idrogeologico e per i cittadini che ci vivono. No a una Basilicata hub petrolifero d’Italia. Non vogliamo più barattare la salute umana e quella ambientale in cambio di un piatto di lenticchie avariate. Se solo calcolassimo i costi ambientali, dovremmo rubricare le attività di coltivazione idrocarburi alla voce “attività improduttive”. Dalle concessioni di coltivazione lucane vengono estratti mediamente 25 milioni di barili all’anno (80% del petrolio estratto dal sottosuolo italiano). Un quantitativo di greggio che potrà sembrare enorme, ma che è semplicemente ridicolo se si considera che nel 2018 gli Usa sono arrivati ad estrarre fino a 11 milioni di barili al giorno. Dobbiamo necessariamente chiederci, anche alla luce di quanto raccontano le cifre, se stiamo perseguendo gli interessi della patria, della nazione, del popolo o se per caso non stiamo semplicemente assecondando i legittimi interessi delle petrolobby. Per una manciata di barili, che avremmo dovuto lasciare nel sottosuolo come riserva da prelevare in caso di reale necessità, stiamo mettendo a rischio una risorsa di gran lunga più preziosa dell’oro nero: l’acqua. C’è troppa ambiguità nelle parole pronunciate sulla vicenda petrolifera lucana. Sappia il Ministro Salvini che abbiamo già dato e che vogliamo custodire i nostri veri, unici tesori: le nostre Valli, le nostre acque, i nostri meravigliosi borghi, i nostri parchi. Purtroppo, e salvo cataclismi, saremo costretti a rispettare gli accordi sottoscritti, ma adesso stop a chi in nome di non so quale sviluppo propone un futuro che è già trapassato remoto.