Claudia Durastanti è una scrittrice che ha fatto il percorso inverso. Nella dinamica degli spostamenti, cui siamo abituati, è passata dal futuro al passato all’età di sei anni, emigrando da Brooklyn in Basilicata, in un paesino di circa mille abitanti. Vive, come la protagonista del suo romanzo inventato dal vero, tutti i disagi di una ragazzina che è atterrata in un mondo dove dovrà riprendere il percorso per imparare la lingua e le modalità di un altro posto. Appena letto il romanzo mi viene in mente un libro letto di recente che in un altro contesto, rifacendosi alla nullità dell’agoghé, osserva che un bambino ha il diritto alla sua infanzia, ha diritto a crescere formando liberamente sue convinzioni senza che alcun tipo di fondamentalismo né politico, né religioso, lo strumentalizzi.
La protagonista del romanzo ha tutta la libertà di vivere la sua condizione, subendo sulla propria pelle anche l’ostilità velata di una popolazione che fa fatica a vedere un buon futuro per chi ha genitori troppo diversi. La mamma ed il papà sordi ma anche protagonisti di una vita Rock, troppo Rock per un luogo “topografico” ancora troppo vicino ad alcuni stereotipi di rassegnazione già narrati da Carlo Levi in “Cristo si è Fermato ad Eboli” ed al quale ogni nuovo interlocutore che la scrittrice incontra nei suoi viaggi, fa rifermento parlando della Basilicata. Ha letto i libri che trovava dentro casa, leggendo di Bob Dylan e Patti Smhit fino a Ultima fermata a Brooklyn, forse troppo per una ragazzina ma utile per imparare quanto prima le asprezze della vita. La protagonista del romanzo ci dimostra, anche senza volerlo, che quando il pedigree non aiuta, secondo le convenzioni locali, la sorte ed il cammino per la propria emancipazione la si può costruire con la conoscenza, allargando gli orizzonti e i punti di veduta. Anche senza il piano che il fratello della protagonista ritiene di dover attuare per sopravvivere, in un mondo troppo distante da Brooklyn: “Andare bene a scuola andare a messa tutte le domeniche, dire buongiorno agli anziani, farsi vedere il meno possibile con la mamma e non prendere mai il vizio delle sigarette. Qui, diceva il fratello in un discorso preciso e nobile, hanno già deciso cosa diventeremo: “Io un delinquente e tu una ragazza volgare”.
La mamma era un elemento di distanza con quelli del posto perché era muta, era straniera; era a’ mercan.
La ragazzina che seguiva la mamma nelle traversate a piedi, da un paese all’altro della val d’agri, consapevole che ciò significava, secondo i canoni di certe zone montane del Sud, solo dimostrazione della propria indigenza; in un mondo che stranamente per alcuni, gli assomigliava sempre più alle zone depresse del New Jersey. Ora la Durastanti, che somiglia sempre più alla protagonista del Romanzo, per spostarsi da un paese all’altro e presidiare alle presentazioni del libro finalista al premio strega, ha chiamato una sua amica a Londra, che ha noleggiato una vettura all’aeroporto di Bari per scorrazzarla sulle strade Lucane. Oggi la Basilicata è proprio diversa, pur essendo la stessa cartina “topografica” di un tempo, e Claudia Durastanti ce la mette in relazione ed in comparazione rispetto al mondo intero, con una delicatezza straordinaria, con una capacità di raccontarla dalla sua viva voce, per chi ha avuto la fortuna di ascoltarla, che ti viene voglia di abbracciarla. Claudia ci racconta un mondo troppo recente pur riportandoci agli anni settanta ed a quelli di prima, quando si emigrava per cercare fortuna senza più salpare l’oceano su di un bastimento. Ci riporta velatamente una Basilicata che ha codici diversi, dalle ricerche di J. Davis, Banfliend e De Martino: “…i codici erano cambiati, ma dato che erano molto simili a quelli degli adolescenti americani, annoiavano qualsiasi antropologo; le ragazze afflitte da una crisi della presenza non calpestavano i ragni in preda alla possessione, si dipingevano le unghie e bevevano troppo; i ragazzi non suonavano lo zufolo o davano fuoco a dei fantocci a forma di Gesù Cristo, indossavano la maglietta di Ronaldo cercando di incarnare una divinità più modesta”.
La protagonista di questo romanzo si confonde con l’autrice quando rientra nel paese che l’ha ospitata dagli anni delle scuole elementari fino al Liceo. Ritorna come un normale cittadino che vive altrove e rientra per i suoi affetti e per le sue radici, ma lo fa senza ostentare benessere che siamo soliti associare a bolidi dell’ultima ora; lo fa da protagonista invitata a parlare del suo romanzo finalista al premio strega. Già, perché “Strega” arriva dopo altri tre romanzi ed una bella carriera nell’ambito della letteratura e dell’editoria, ma non bastavano a rompere quell’imene che paradossalmente ha difeso la straniera, relegata nel ruolo della figlia della muta, dal Sud e dalla magia.
Claudia Durastanti ci traghetta in un mondo che chi ha l’età della mamma della protagonista ha vissuto in prima persona osservando l’evolversi di una emancipazione che tarda ad arrivare o, quando arriva, arriva con modalità depauperanti già consumate e sperimentate altrove.
La straniera non parla di un’estranea, parla di una persona che ha radici lunghe e larghe, che sa di appartenere ad un mondo più vasto e che alcune diversità, come quelle dei genitori, possono essere vissute come risorsa. Del resto “Straniero è una parola bellissima, se nessuno ti costringe ad esserlo”.
Gianfranco Massaro – Agos