Riceviamo e pubblichiamo un saggio sulla figura di Sant’Antonio, a cura dell’Etnoantropologa dottoressa Anna Teresa Lapenta da Corleto Perticara
Da oggi le case dei lucani si inebriano del profumo della “rafanata”, dei profumi e dei sapori che invocano il passato nella varietà della contemporaneità, che sono croce e delizia, abbondanza e penuria Ad introdurci in questo tempo “straordinario” è un personaggio noto: Sant’Antuono o Sant’ Antonio Abate, la cui festa ricorre il 17 gennaio.
Conosciuto come il protettore degli animali nella cultura contadina, in molti sapranno che a questo Santo risalgono alcune delle più importanti tradizioni popolari lucane: i Carnevali, da quello di Tricarico a quello di Teana, da Aliano al Campanaccio di San Mauro Forte, ai falò e alla corsa di asini e muli di Pignola.
Per meglio comprendere il nesso che intercorre tra il Santo e il Carnevale sarebbe necessario scandagliare la sua agiografia e la storia delle tradizioni popolari correlate al suo culto. In questo articolo non si vuole avere una tale velleità. Tuttavia, si cercherà di focalizzare l’attenzione su alcuni tratti salienti concernenti questa figura tanto venerata nella nostra regione.
Innanzitutto, l’iconografia: Sant’Antonio Abate è rappresentato come un vecchio con la barba ed un bastone di ferula a forma di tau, nelle mani ha il fuoco e ai suoi piedi vi è un porcellino. I suoi attributi iconografici ci dicono molto della sua agiografia. In particolare, il fuoco è correlato all’episodio leggendario in cui il Santo anacoreta scese agli inferi e, in seguito ad una serie di peripezie, riuscì a rubare una scintilla del fuoco infernale e che, custodendola nel suo bastone, la donò agli uomini affinchè ne facessero uso. Questo episodio della vita del Santo evoca una storia più antica, profana e mitica, che è quella di Prometeo, il titano amico degli uomini ai quali donò il fuoco sottratto agli inferi.
Ma al fuoco e al suo animale simbolico, il più impuro degli impuri, quale è il maialino, è legata anche la sua signoria su una malattia: l’herpes zoster, comunemente conosciuta come fuoco di Sant’Antonio. Le virtù terapeutiche del Santo si infondono in un miracoloso unguento derivato dai cosiddetti “porci di Sant’Antonio”, animali votati al Santo che vagavano liberamente per le strade cittadine e che venivano alimentati dalla popolazione, che li considerava alla stregua di animali sacri ed intoccabili, in particolar modo quelli che presentavano delle macchie rosse che ricordavano la malattia cutanea di cui il Santo è taumaturgo.
I maialini venivano uccisi dai monaci antoniani e dal loro grasso veniva prodotto l’olio miracoloso. Inoltre, il maiale, nella tradizione, è simbolo dell’abbondanza in quanto riserva di grasso e di carne; un’abbondanza che, nella penuria contadina, aveva il sapore della festa, del lecito e del peccaminoso. Un’abbondanza concessa durante il Carnevale che inizia proprio sotto il segno della licenza, dell’esasperazione e del fuoco. Sono numerosi i paesi in cui il 17 gennaio vengono accesi enormi falò, in cui il fuoco propizia e rigenera, in cui si incanala la vitalità del Carnevale: festa e trasgressione in cui si catalizzava anche il malcontento popolare, tanto da rasentare la rivolta. Dall’esplosione del Carnevale, prima o poi, bisognava pentirsi e così al termine degli eccessi si giungeva al pentimento quaresimale.
Ma il Carnevale è solo all’inizio ed in attesa del sacrificio alimentare consentiamoci qualche eccesso anche perché, come afferma l’antropologo Marino Niola,“dal sacrificio del maiale l’anno contadino traeva la linfa vitale per riprodursi fino all’anno successivo, quando morto un maiale se ne faceva un altro!”
Anna Teresa Lapenta