di Bruno Masino
La pandemia dovuta al virus SARS-COV2, oltre che impegnare notevolmente il sistema sanitario nazionale per gli aspetti legati alla prevenzione/contenimento dell’infezione, ha messo a dura prova le strutture di ricovero, in particolare le terapie intensive le quali, chiamate a trattare pazienti per le più svariate motivazioni che dovranno necessariamente essere approfondite, sono state impegnate a fronteggiare una malattia infettiva caratterizzata da quadri clinici pleiomorfi e molto severi.
Il virus e la malattia, nuovi, ci hanno disorientato facendoci percepire tutta la nostra impotenza a fronteggiare la contagiosità del primo e l’aggressività della seconda. Tralasciando in questa sede gli aspetti connessi al contenimento della diffusione dell’infezione attraverso tutte le misure ben note ed alla possibilità di sviluppare ed utilizzare su larga scala un vaccino efficace, vorrei orientare l’attenzione sulle terapie disponibili che potrebbero essere di aiuto a fronteggiare sia la moltiplicazione e diffusione del virus nell’organismo, sia i quadri clinici con i quali si appalesa la malattia. Bisogna premettere che anche per tale aspetto, non conoscendo farmaci efficaci per le ragioni innanzi esposte e dovute alla novità dell’agente infettante e dei quadri clinici conseguenti, si è proceduto sulla base di esperienze ed evidenze scientifiche piuttosto limitate.
Da un lato sono state avviate sperimentazioni cliniche avvalendosi di principi attivi già noti ed utilizzati per altre condizioni cliniche con manifestazioni del tutto diverse dalla COVID-19, come nel caso dei farmaci utilizzati per il trattamento dell’artrite reumatoide o per il trattamento di infezioni dovute ad altri virus come nel caso degli antivirali, dall’altro si è proceduto ad utilizzare nel trattamento dei pazienti farmaci anche essi nati e commercializzati per patologie di varia natura, come nel caso della idrossiclorochina che è un antimalarico o dell’antibiotico azitromicina, per citarne solo alcuni. L’AIFA, (Agenzia Italiana del Farmaco) ha, quindi, autorizzato sia diverse sperimentazioni per i farmaci “nuovi”, sia ha provveduto a fornire indicazioni, in continuo aggiornamento, sull’uso clinico-terapeutico di farmaci già in uso per altre patologie.
Ma vediamo ora di chiarire, in maniera sintetica e comprensibile, qual’è l’attuale situazione per quanto concerne questi ultimi farmaci.
Non si può comprendere l’orientamento terapeutico se non si descrive brevemente il quadro clinico che si manifesta a seguito del contagio con SARS-COV2. A seguito dell’infezione e, quindi, della penetrazione del virus nel nostro albero respiratorio e della sua successiva moltiplicazione a livello della mucosa delle prime vie aeree, i sintomi possono essere assenti o aspecifici. In quest’ultima evenienza si potrà avere, tra gli altri sintomi, febbre associata a malessere generale, tosse secca, anosmia, ageusia. Se l’infezione si blocca o si riesce a bloccare in questa fase, il decorso appare del tutto benigno. Se si ha l’evoluzione alla fase successiva si possono avere disturbi legati al danno polmonare dovuti in parte all’azione del virus sulle cellule degli alveoli polmonari, ma anche all’attivazione della risposta immunitaria dell’organismo. Si avranno allora un quadro di polmonite interstiziale tipica con associati disturbi da insufficienza respiratoria che può sfociare successivamente in un quadro più grave. In un certo numero di soggetti si potrà poi avere il quadro più grave dovuto all’azione dei mediatori dell’infiammazione prodotti dal nostro stesso organismo che, superando il danno polmonare in senso stretto, determinano gravi danni ai vasi sanguigni con formazione di trombi nei piccoli vasi e possibile evoluzione verso un quadro severissimo che è la coagulazione intravascolare disseminata ed indicata con l’acronimo CID, ad esito letale.
Prendendo spunto dall’evoluzione innanzi descritta, si possono comprendere le ragioni dell’autorizzazione all’utilizzo di alcuni farmaci da parte di AIFA. In primo luogo occorre considerare che, come l’evoluzione clinica descritta dimostra, prima si interviene e più la stessa potrà essere meno ingravescente.
I livelli ed i momenti in cui si può intervenire giustificano l’utilizzo dei diversi farmaci.
Gli antivirali come il ritonavir abbinato al lopinavir, oppure il darunavir associato al cobicistat agiscono inibendo alcuni enzimi necessari al virus per potersi moltiplicare. Quindi la loro è un’azione antivirale. L’idrossiclorochina invece è utilizzata per la sua azione antivirale ma anche per l’azione immunomodulante, cioè in grado di regolare la risposta immunitaria dell’organismo e che abbiamo visto essere responsabile di alcuni dei danni da COVID-19. L’azitromicina, che è un antibiotico, è utilizzato perché ha dimostrato avere anche un’azione di mitigazione della risposta immunitaria dell’organismo riducendone l’intensità e, di conseguenza, gli effetti negativi descritti.
Ma veniamo all’ultima categoria di farmaci autorizzati dall’AIFA, vale a dire agli anticoagulanti. In particolare l’enoxaparina, conosciuta da molti col suo nome commerciale clexane. E’ un farmaco utilizzato per la sua azione antitrombotica. Si è visto che un uso tempestivo ed a scopo profilattico può ridurre i rischi legati ai fenomeni tromboembolici da ipomobilità nei pazienti allettati per COVID-19. Non solo, l’utilizzo a dosaggi maggiori mira a ridurre i fenomeni trombotici a partenza dal circolo polmonare come conseguenza dell’iperinfiammazione e che abbiamo visto rappresentare la condizione che porta a quadri severissimi ed a morte. Naturalmente il suo utilizzo, come quello di tutti gli altri farmaci, va valutato attentamente di volta in volta per individuare i pazienti candidati alle diverse terapie in considerazione anche dei rischi connessi al loro uso. I dati disponibili, per l’enoxaparina come per gli altri farmaci citati, sono anche in continuo aggiornamento per cui l’AIFA si riserva di aggiornare costantemente le schede tecniche in ragione delle evidenze che emergono quotidianamente dall’utilizzo sui pazienti.
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