L’ultima sera della tre giorni letteraria, andata sotto il nome di Equinozio letterario, organizzato brillantemente dall’ENDAS di Corleto Perticara, sotto la sapiente ed infaticabile guida della presidente Maria Ierardi, ho incontrato una signora sulla scalinata della Sala “Zi Nik”. Guardando il suo cipiglio illuminato da curiosità, e notando che era stata attentamente presente anche le altre serate. Le ho chiesto: Signora, cosa ne pensa dell’iniziativa conclusasi stasera? Mi ha guardato è mi ha detto: belle, interessanti; preferisco farle una sintesi scritta, le farò sapere a breve, ma mi raccomando, non sveli il mio nome, anzi se proprio le va mi chiami Speranza. Stamattina, trovo una mail con la sua sintesi. Ed io la pubblico, così come l’ho ricevuta:
Dopo aver seguito le tre serate di equinozio letterario, questa minimaratona per discutere del problema meridionale, la mia riflessione o sintesi, visto che mi è stato chiesto, è questa:
Noi, al di qua del Garigliano, eravamo così anche prima del risorgimento. Solo che stavamo dentro i nostri confini, e, per dirla alla maniera di pulcinella, “noi ce la cantavamo e noi ce la suonavamo”. Eravamo una monarchia dove, comparando le cose con ciò che stava nella parte in alto dello stivale, le cose non stavano proprio bene bene. Vi erano si dei momenti di spiccata vitalità sociale, ma soprattutto tante situazioni di miseria assoluta, la Basilicata e la Calabria erano l’esempio più diretto per la miseria che vi si trovava. Ma ciò lo poteva dire chi viaggiava e chi aveva modo di vedere e di poter fare confronti. Ora, del perché fu deciso di unire le popolazioni dentro i confini a forma di stivale, del come fu fatto e del perché, credo se ne sia parlato e se ne parli ancora in contesti più specifici dove ancora non si è capito se Crocco era un resistente, un rivoluzionario o un delinquente/bandito comune.
La tre giorni di “Equinozio letterario“, mi è sembrato di capire che sia frutto di un idea del regista teatrale Giovanni Zurzolo, per discutere e analizzare la situazione del meridione d’Italia. Del mezzogiorno, di noi che, volere o volare, siamo ormai consapevoli di essere inferiori e diversi da ciò che in altre parti dell’Italia appare tutto più evoluto e meglio vivibile.
A questo punto, dunque, dal romanzo di Tomasi di Lampedusa, Il gattopardo, si evince tutto lo stupore di fronte al cambiamento ma anche la capacità, della classe che comanda, di sapersi adattare e modellare al nuovo assetto che la società, dopo l’unità e con il nuovo ordinamento, si dà. Una nobiltà conscia dei propri limiti ma, soprattutto, dei limiti di un territorio che non cambierà mai o, se accadrà, sarà attraverso un processo lentissimo e molto lungo.
Carlo Levi, ben oltre settant’anni dopo, vede la Basilicata e le sue popolazioni, e ne descrive lo stato in cui versa una società molto diversa da quella da cui proviene lui. Una popolazione fatta di gente semplice, capace di saper stare nella sua miseria con la consapevolezza che solo oltre oceano potrà svilupparsi e solo se vuole Roma potrà accadere qualcosa. Una popolazione che sa anche ribellarsi, perché quando vuole sa alzare la voce con la ruvidezza tipica del “bifolco”, forzuto e nerboruto, al punto che in un caso specifico Don Carlo, dovette faticare non poco per placare gli animi per evitare che sfociasse in tumulto la reazione al divieto del “Podestà” Don Luigino Magalone, di farlo operare come medico.
Cento anni dopo, Sciascia, ci racconta una storia, che come le altre precedenti, di Tomasi da Lampedusa e di Carlo Levi, è una storia inventata dal vero. <<Fatti e personaggi sono frutto della fantasia dell’autore ed ogni riferimento a persone, luoghi o fatti realmente accaduti è solo frutto del caso.>> è la manleva che troviamo alla fine o all’inizio di Film o romanzi che narrano storie, proprio per evitare che qualcuno possa rivedersi e chiamato in causa, e quereli lo scrittore e la casa editrice (che credo sia la più interessata a fare soldi con il libro ma a tenersi lontano dai problemi). E già questo la dice lunga, sulla capacità di voler denunciare fatti che potrebbero far sollevare le menti a cambiare atteggiamento e tenersi lontano da chi mette in pratica stili di vita non lineari o addirittura fuorilegge.
Ma per stare ai fatti delle tre serate, per discutere ed analizzare la situazione, attraverso la lettura di tre importanti opere letterarie, credo bisogna passare all’analisi e al conto da fare. Che è, a mio parere, uno solo, e sta in un’analisi della coscienza che ognuno di noi ed ognuno dei presenti in sala dovrebbe farsi, per poi rendersi portatore sano di impegno a cambiare registro: attuando buone pratiche sociali e addirittura pretendendole da chi vive al proprio fianco e da chi ha l’onere e l’onore di guidare questa società; sia esso politico, funzionario pubblico, imprenditore, religioso ed ogni altro soggetto appartenente a categorie che con le azioni quotidiane riverbera, come un moltiplicatore, effetti sull’andamento della vita sociale di questa terra.
E allora diciamo subito che dopo che Don Fabrizio con una piroetta diplomatica riesce a riciclarsi dentro il nuovo ordine sociale, tutti, come Ciaula che scopre la luna, prendiamo coscienza di essere il Sud dell’Italia. E da quel momento che, secondo i canoni della vita Piemontese, siamo arretrati. Quindi iniziano le attività politiche per migliorare le cose e rendere l’Italia unita veramente. Cavour si preoccupa di mischiare i funzionari pubblici per creare un effetto contaminazione nella burocrazia. Le opere pubbliche sono necessarie ma occorre farle per creare sviluppo concreto, strutturale e non solo per creare situazioni di congiuntura che non lasciano a terra niente. I Comuni non hanno capacità di gestire la manutenzione delle Opere pubbliche, se e quando verranno fatte (F.S. Nitti 1910). Nel contempo, all’alba del nuovo regno, il problema è come unire il popolo dopo aver unito i confini d’Italia e si pensa ad una lingua comune, da diffondere con la scuola, con la stampa, ma il problema è se avviare o no una scuola obbligatoria per tutti. Nel frattempo, passando per una prima guerra mondiale, arriviamo al periodo del ventennio Fascista ed a Carlo Levi che trova un mondo arretrato, ma dignitoso, sottoposto ad una borghesia assente e rozza, che vive di privilegi spiccioli e vessa i “cristiani” che debbono sottostare al libero arbitrio di sufficienti dottori e sufficienti notabili, incapaci di porsi qualsiasi interrogativo di miglioria della vita sociale; perché tutto scorre nel perimetro paesano e tutto si svolge nei limiti di una profonda ignoranza ma che gli aggrada fin tanto che i poveri “cristiani” continuano a riverirli. Ed arriviamo, dopo un secondo conflitto mondiale, al 1960 quando Leonardo Sciascia, sempre inventando dal vero, ci racconta la vita sociale di una terra che dal sottostare al feudatario ed al Principe o Marchese di turno, per vivere deve sottostare al volere di famiglie riunite sotto un nome che il Governo fatica, o viene ostacolato, a riconoscere come Mafia.
Nel frattempo, ancora, la conferenza episcopale incomincia a porsi il problema del meridione che è sempre meno allineato alle condizioni di vita di tutta la nazione e, con una lettera aperta nel 1948, sollecita interventi più incisivi per il rilancio di questa parte d’Italia. E dopo un lungo silenzio, il 1989 scrive di nuovo, alzando l’asticella, dice, tra l’altro: “L’Ostacolo forse principale a una crescita autopropulsiva del mezzogiorno viene quindi proprio dal suo interno e risiede nel peso eccessivo dei rapporti di potere politico […] C’è infatti una mafiosità di comportamento, quando, ad esempio, i diritti diventano favori, quando non contano i meriti, ma i legami di comparaggio politico”.
Ora considerato che siamo nel terzo millennio, e che osservando lo stato delle nostre strade, le condizioni delle nostre Aziende Sanitarie, la vita quotidiana nei nostri Comuni ed i Trolley dei nostri figli che partono per progredire altrove si capisce che le cose sono cambiate di poco o, meglio, giusto di quel tanto che è sotto gli occhi di tutti noi. E dato che, come ho sentito dire la sera che si è parlato del Cristo di Carlo Levi, scuse per l’arretratezza scolastica non ne abbiamo più, né che siamo una terra povera – perché basta guardare i tralicci e le varie fiamme, gli sbarramenti dei fiumi ma anche solo le valli ed i boschi – la conclusione è solo una: bisogna cambiare registro. Un primo motivo per cambiare registro sta nelle assenze che si sono viste in sala. Se sono mancati gli alunni delle scuole locali è forse perché qualcuno non ha avuto la bontà di sollecitare i propri allievi, magari preannunciando consuntivi in aula per discutere di ciò che in queste sere si è detto? Se sono mancati i probi che vivono la vita sugli scranni della pubblica amministrazione o che ambiscono ad occuparli, è perché alla fin fine ritengono che analizzare i perché ed i percome vi sono paesi, come Corleto, che hanno strade pubbliche interrotte da anni, è un problema che così è e così andrà per quieto vivere e per non disturbare i relativi riferimenti nei piani alti del potere? Se sono mancati gli imprenditori è perché ritengono che alla fin fine per sopravvivere con la propria attività bisogna farsi i fatti propri e non disturbare il manovratore? Se sono mancati gli sportivi, i contadini, i braccianti è perché alla fin fine anche loro sono convinti che non occorre esporsi, altrimenti potrebbe crearsi un ostacolo per quando i figli avranno necessità di far visionare il proprio curriculum da qualche multinazionale che opera in zona?
Ecco se non ci ribelliamo, cambiando registro, avremo ancora tanti scrittori che potranno attingere alle storie vere che scandiranno il lento scorrere della vita grama meridionale. E meno male che qualcuno, dal tavolo, ha avuto la bontà di chiedere scusa alla giovane Jasmine, intervenuta con un linguaggio fresco, diretto e carico di speranza.
Le porgo i più cordiali saluti.
Speranza.
Da Corleto Perticara, dalla Sala del cinema “Zi Nik”, è tutto.
Gianfranco Massaro – Agos