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Il cetaceo fossile del lago di San Giuliano

Il 27 dicembre del 2000 l’autore di questo articolo scopriva i primi resti di un grande cetaceo fossile sulla sponda sinistra del lago artificiale di San Giuliano, in territorio di Matera. Il reperto giaceva nelle argille subappennine ed è databile a circa un milione di anni fa. Contestualmente alla scoperta, dallo scrivente venivano avvisate del rinvenimento prima la direttrice del museo archeologico materano e, immediatamente dopo, la soprintendente archeologica di Basilicata (come attestato negli Atti del Cinquantesimo Convegno di Studi sulla Magna Grecia, 27-30 settembre 2012. La scoperta, da parte di chi scrive, già dipendente della soprintendenza archerologica lucana, è comprovata anche da un documento del Ministero della Cultura prodotto dalla Direzione Archeologia, Belle Arti e Paesaggio).

le prime evidenze del cetaceo fossile del lago di San Giuliano scoperte e segnalate da G. Lionetti il 27 dicembre del 2000

 

La suddetta segnalazione fu ignorata, pertanto il doveroso sopralluogo da parte dei funzionari della Soprintendenza, finalizzato alla valutazione dello stato di conservazione e degli appropriati e tempestivi provvedimenti di tutela, non si verificò nè subito dopo, nè nei mesi successivi, nonostante le reiterate sollecitazioni dello scopritore.

Un reperto fossile può conservarsi intatto per milioni di anni, fino a che rimane protetto dalle rocce che lo avvolgono, ma nel momento in cui viene alla luce può disintegrarsi in breve volgere di tempo, tanto più se alle alterazioni causate dagli agenti atmosferisci si aggiungono gli effetti erosivi del moto ondoso di un lago, come nel caso di cui si tratta in questo articolo caratterizzato da un disfacimento repentino e devastante.

I resti ossei in parola per i primi tre anni, ossia fino all’autunno del 2003, furono in una condizione ottimale per il recupero, essendo stato, quello, un periodo siccitoso poi, con il ritorno delle precipitazioni, il livello del lago aumentò e le evidenze furono sommerse. Questo evento comportò la distruzione di tutte le testimonianze superficiali segnalate nel dicembre del 2000 e di quelle giacenti negli strati immediatamente sottostanti. Il 5 agosto del 2006, quando il livello del lago cominciò a calare per le scarse precipitazioni, il sito fossilifero tornò alla luce rivelando un tratto della colonna vertebrale comprendente una quindicina di vertebre. Una decina di tali corpi vertebrali, quelli già totalmente privati della matrice argillosa che li avvolgeva, mostravano il degrado evidente da erosione causata dal moto ondoso degli ultimi tre anni. Infatti cinque di essi si limitavano a poche tracce, altre cinque risultavano sensibilmente svuotate del tessuto spugnoso (si veda documentazione fotografica).

un tratto della colonna vertebrale del fossile venuto alla luce nell’agosto del 2006, dopo tre anni di sommersione nelle acque del lago (2003/2006)

 

Quel segmento di colonna vertebrale, nella stessa mattina del sabato 5 agosto, fu avvistato dal proprietario del fondo contiguo al lago il quale, vista la grandezza di quelle ossa (il diametro delle vertebre si aggirava intorno ai 35 cm), pensò di trovarsi di fronte ai resti di un dinosauro e per questo si precipitò a raggiungere il Museo Archeologico Ridola di Matera dove riferire la presunta scoperta. Giunto al museo, non riuscì a parlare con nessun funzionario tanto che si vide costretto a denunciare la scoperta del suo dinosauro presso la locale caserma dei carabinieri.

Con l’intervento dei carabinieri la Soprintendenza si vide costretta ad intervenire sui pochi resti superstiti del cetaceo. I lavori di recupero delle ossa fossili, a causa del clima e dei reiterati aumenti di livello del lago, furono effettuati a più riprese fra l’autunno del 2006 e l’autunno del 2011. Nel corso di tutto questo tempo i resti del cetaceo si ritrovarono più volte sommersi e subirono ulteriore degrado, tanto che presso il giacimento fossilifero furono recuperate centinaia di frammenti ossei inutili ai fini della ricomposizione per aver subito un devastante processo di fluitazione che ne ha comportato la riduzione di volume. Come se non bastasse, le casse in cui parte del fossile fu racchiuso, per essere troppo grandi e pesanti, furono depositate all’aperto senza alcuna protezione e lì rimasero per sei anni fino a che un giornalista non gridò allo scandalo.

Lo scheletro di un cetaceo di grandi dimensioni annovera circa 170 ossa, del cetaceo fossile del lago di San Giuliano ce ne sono rimaste una ventina in precario stato di conservazione. Lo scrivente aveva già riferito di tale degrado in un articolo pubblicato sulla rivista  Mathera  (anno 2018, n° 4), mentre i vari soprintendenti che si sono avvicendati in questi ultimi quindici anni hanno fatto credere alla popolazione che avrebbero, un giorno, visto l’intero cetaceo pleistocenico ricostruito nella più grande delle sale del Museo Ridola. Solo lo scorso 22 dicembre, a 22 anni dalla scoperta del fossile, l’attuale direttrice del Ridola ha ammesso che le ossa residue sono poche e frammentarie.

Adesso che di quel gigantesco scheletro è rimasto ben poco, i cittadini lucani dovrebbero essere indennizzati per la perdita di un bene che doveva essere considerato patrimonio culturale comune e che pochi soggetti della Soprintendenza, per i quali, evidentemente, questa scoperta fu solo una scocciatura e per questo, di conseguenza, ignorandone l’esistenza, hanno lasciato che si disintegrasse.

Gianfranco Lionetti

 

frammenti del fossile in gran parte disintegrato dall’erosione generata dal moto ondoso.

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