Petrolio in Val d'Agri e Valle del SauroPrimo Piano

La chiusura del cantiere di “Tempa Rossa” genera crisi per l’intero assetto sociale.

C’è una infinità di persone che appartengono ad una macrocategoria di popolazione che potremmo definirla, come fece Francesco Alberoni dalle pagine del Corriere della sera, innominabili. Sono uomini e donne che non hanno una ben definita connotazione sociale aggregata. O, meglio, solo aggregandoli li si può definire. Negli ultimi anni li chiamano il popolo della partita IVA, nel passato liberi professionisti o praticanti di una libera attività. Altro non sono che artigiani, commercianti, ed altri soggetti che svolgono un’attività o professione che ha ogni giorno una connotazione indefinita del divenire della giornata lavorativa. Perché innominabili! Perché nessuno se ne ravvede di nominarli quando si fa riferimento al repentino calo delle condizioni oggettive che reggono la vita economica di questi piccoli paesi di montagna.

La mancanza di opportunità di lavoro viene inquadrata sempre pensando alle sigle sindacali che sostengono le lotte, che fanno le vertenze, che stilano accordi di programma, che sottoscrivono verbali di intesa, talvolta bloccano cancelli o frequentano tavoli di concertazione. Se chiude un cantiere e scemano le presenze in un territorio, che nell’ambito di un’area poligonale che si stringe in 177 kmquadrati per circa 4000 abitanti 22 ab/Kmq, come è il caso concreto del triangolo petrolifero di Tempa Rossa, si pensa subito a padri di famiglia che non hanno più un lavoro ed una busta paga con relativo emolumento; e come faranno a reggere? Come manterranno i figli a scuola? Come dovranno sostenere le spese di famiglia? E tutte una serie di impegni che assumono la cromatura di una sciagura piuttosto che di un servizio; la bolletta per l’energia elettrica non sarà più il segno di una modernità che consente di vivere civilmente, ma una iattura che si ripete con la ciclicità bimestrale; così l’acqua, il gas fino a tutte le altre spese che si associano ai bisogni primari.

Gli innominabili, invece, restano li, nel limbo della invisibilità: Sono un nulla che non suscita interesse alcuno se non quando la saracinesca non si alza più e ci si interroga o si spettegola sulla storia della bottega, scivolando, in taluni casi, in esplicitazioni di crisi finanziarie o strutturali che riguardano lo sfortunato titolare di quella partita IVA.
Che succede? Succede che, in un arco temporale di ventiquattro trentasei ore spariscono circa mille persone, mille esotici soggetti che animavano questi villaggi montani con le loro tute arancioni, le loro fragorose serate davanti ai bar, i loro rumorosi incontri conviviali nelle pizzerie e tutto ciò che un gruppone di metalmeccanici – tecnici, operatori ed ingegneri – poteva rappresentare per la “psicosociologia economica” di lande desolate come lo sono queste calle dell’alto Sauro. Però la notizia è che un gruppo di lavoratori: operai, movieri, cuoche, inservienti, muratori, manovali addetti sicurezza, sono rimasti senza lavoro. Non avranno più di che sostenere le famiglie. Di questi “reietti” dell’economia locale niente.

Nulla che fa accenno ad un gruppo di persone che dal desolante ritorno alla demografia ante costruzione centro olio sta combattendo una silenziosa battaglia interna per reggere numeri che non giustificano più la contabilità. Di questi se ne parla poco, o perché li si considera gente che guadagna e si lamenta (evitiamo la formula dialettale della considerazione) o perché stanno li e li si considera un’arredo dei paesi, così, come nel presepe. Nessuno che pensa che un negoziante che annaspa è un servizio mal dato o, se chiude, è un servizio mancante. Pochi pensano che chi apre una porta di una bottega, alza la saracinesca di un negozio, stende un banco per la vendita di prodotti dell’agricoltura altro non è che un personaggio che ci offre la possibilità di avere un servizio a stretto giro e non un ingordo che vuole arricchirsi; benché non sarebbe follia rifarsi alle indagini su “La natura e le cause della ricchezza delle Nazioni” che ci rimanda all’avidità del macellaio o del birraio per soddisfare al meglio i nostri bisogni. “E’ all’avidità di questi che dobbiamo la possibilità di poter soddisfare il nostro bisogno di desino” – (A. Smith).

Con questo che voglio dire? Vi immaginate voi un Borgo dove per una logica, tutta condivisibile, di economenetria contabile non ci sia un negozio alimentare, un bar, un panificio, ed altri servizi per i quali, di alcuni, già si sperimenta la loro mancanza e l’oblio in cui siamo costretti a vivere? L’edicola vale per tutti, ma si potrebbe citare il barbiere, il calzolaio e così andando avanti. Ed allora riflettiamo un po’ su ciò che l’arretramento demografico di congiuntura rappresenta per questi territori. Non vi è alcun numero che giustifichi la presenza di qualsivoglia attività commerciale. A meno di non pensare alla mancanza di alternativa, alla spirale dei debiti in cui ci si è ficcati o, raramente, alla passione per il mestiere, ma, in quest’ultimo caso, solo per situazioni dove il costo storico degli impianti e di altri beni immobilizzati aiuta a tirare somme e totali che giustificano la resistenza.
E’ il declino di una fetta di società che si trova in condizione di “mètaclassesociale”; del resto una volta avevamo una classe dominante di ricchi, ricchi proprietari terrieri, una borghesia consapevole ed una medio-bassa borghesia inconsapevole; e poi un esercito di contadini proletari che vivevano con rassegnato disincanto la loro condizione, accontentandosi di sbarcare il lunario dignitosamente. Oggi, invece, abbiamo una classe di proletari che agognano un lavoro in loco, altri che svettano verso altri lidi senza aspettare che qui arrivi il lavoro pure per loro, ed una classe di benestanti che si fa fatica a chiamare ricchi. E poi una classe di medioborghesi fortunati che appartengono al pubblico impiego; quelli che non subiscono, fatta eccezione per la psiche, gli effetti di tsunami demografici legati ai grandi cantieri.

Ed allora, credo, occorre fare un discorso globale e tirare fuori programmi che escano dai confini dell’occupazione come fattore del mercato del lavoro e creino spazi per la creazione di attività che si incastrino bene in un processo di ripresa generale di una economia montana e marginale. Un po’ come ci si aspetta che succeda nelle periferie metropolitane. Se le politiche di governo di questa regione realizzassero programmi per creare reti infrastrutturali di comunicazione, necessarie per raggiungere finalmente quello status di ragnatela tecnica su cui muoversi, su cui poter spaziare tra una collina all’altra, allora troverà spazio anche la fantasia di chi saprà offrire servizi, e per il gusto di soddisfare una propria passione e per soddisfare quell’avidità di cui dicevo citando Adam Smith; occorre ripensare il micromondo di questi minuscoli agglomerati urbani, per far si che la giustificazione di ogni investimento sia calata dentro una rete che unisce più territori e non solo a mega progetti tecnologici, i quali avranno pure la loro valenza ma che non legano con i bisogni di una emancipazione che questi territori aspettano da molto tempo. Ci sarà pure lo strumento che fa un cardiocontrollo remoto con una App su uno Smartphone, ma sarà sempre anche meglio una strada che, in una rete generale, riduca le distanze di percorrenza tra i borghi montani. Con il vantaggio di ridurre pure i costi di gestione di una regione che ha una densità abitativa ridicola rispetto allo standard nazionale.

Ma torniamo ai nostri innominabili. Gli innominabili sono quelli che non si lamentano (se ne sentite alcuni fanno parte di quella schiera di persone in prestito ad un lavoro che non amano), osservano, pagano le gabelle dei tributi (talvolta per il tramite di Equitalia, perché conviene sempre rimandare il pagamento di un F24 che farsi protestare un assegno fatto ad un fornitore), offrono mercanzie nel negozio sotto casa, ci danno la possibilità di magiare un gelato in piazza all’ombra di un ombrellone, consentono a qualche sperduto viandante di fare i propri bisogni alla toilette, presidiano e monitorano le piazze e le vie del paese. E come facciamo dunque a dimenticarci di questo solido gruppo di cittadini che reggono ogni discorso che giustifica ancora vivere in questi piccoli borghi? E sono questi, carissimi, che stanno soffrendo in silenzio; in un silenzio assordante nessuno si sta rendendo conto che si sta spegnendo la parte importante di questa catena cinematica che sostiene anche i pubblici impiegati, quei burocrati che non si rendono conto che con le cavillose minuzie della burocrazia potrebbero rappresentare il colpo a bruciapelo in una scena del crimine che vede il titolare della partita IVA stramazzato a terra dentro la sagoma di gessetto utilizzato dagli uomini del RIS.
Ed allora, facciamo squadra, costruiamo un futuro all’interno del quale, come in un presepe, ognuno svolge il proprio ruolo, recitando, quando ce ne sarà necessità, ma mai causando intralcio all’altro. E si ritorna, come al gioco dell’oca, al punto di partenza: ci vogliono le infrastrutture, occorre investire su questi territori, bisogna fare le opere non perché c’è un sistema che se ne serve ma perché bisogna creare un sistema che se ne possa servire. Mi spiego meglio, e spero mi perdoniate per la mia insistenza: fare una strada, un acquedotto, un elettrodotto, dove c’è una utenza che preme per averlo è un conto, un altro conto è fare le stesse opere in un territorio dove poi ci potrebbe essere chi, grazie a questi servizi, potrà decidere di venire ad investire ed a mettere a frutto le potenzialità di un territorio infrastrutturato. Occorre che qualcuno li spenda questi fondi per regalarci il sogno o l’illusione di potercela ancora fare, e ce lo devono, perché noi sacrifichiamo la nostra storia ambientale e paesaggistica per rendere un servizio alla nazione con la ricchezza fossile dei nostri territori, perché noi non siamo una regione dove vi sono distese di dune sabbiose e desertiche lande inanimate da qualsivoglia forma di vita. Siamo terra di boschi, di pascoli, di storia archeologica e di ameni paesaggi che hanno dignità al pari di altri luoghi dove l’economia gira per via di indifferenziate possibilità di inserirsi nel mondo del lavoro. Ce lo devono, ma noi dobbiamo saperlo chiedere; non rinunciando al confronto, né sviluppando oltranzismi ecologici che ci distraggono, facendoci osservare il dito piuttosto che la luna. Dobbiamo alzare l’asticella delle nostre richieste non in termini di quantità, in termini di qualità. Ma non verso le company che altro non sono che soggetti animati dall’obiettivo del profitto, ma verso gli organi di governo della Regione, affinché mettano in campo programmi di sviluppo concreto piuttosto che programmi di soddisfacimento delle problematiche di congiuntura.
Dalla Valle del Sauro – Triangolo di Tempa Rossa (Gianfranco Massaro)

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