Società e Cultura

Povertà e pandemia, la situazione delle case di riposo in Italia

IL COVID NON E’UNA LIVELLA scrive Antonio Polito su CORSERA l’8/4/2020 e spinge a fare  alcune considerazioni circa la situazione delle case di riposo, dove si sono verificati numerosi decessi  a causa della pandemia. A 40 anni dalla istituzione del Servizio Sanitario Nazionale le valutazioni  sui Livelli Essenziali di Assistenza L.E.A., in  differenti aree, hanno mostrato che non tutte le regioni  superano al momento la sufficienza, dal momento che non vengono tutelati i principi fondamentali di: universalità, uguaglianza ed equità.

Emergenza Covid-19: contagi Casa di Riposo a San Giorgio Lucano, interviste telefoniche

Tutto questo si è verificato nel caso concreto in alcune regioni come la Lombardia ed il Veneto, regioni in prima fila rispetto alle altre per l’applicazione dei LEA, causato:

– dall’apparizione improvvisa della epidemia trasformatasi rapidamente in pandemia;

– dalla poco conoscenza della patogenicità del virus;

– dalla impossibilità a contenere la epidemia, fino ad ora sconosciuta, con farmaci idonei.

Il numero elevato di decessi è stato dovuto al fatto che ancora non vi è una cura specifica per la cura del contagio e sono stati usati differenti farmaci, che in diverse maniere hanno curato i malati gravi, insieme ai ventilatori automatici che hanno tenuto in vita e forse salvato i pazienti con complicanze.

La maggior parte dei decessi in percentuale è avvenuta nelle residenze per anziani e disabili disseminate in tutte le regioni,dove in emergenza  non si è potuta fare diagnosi di infezione(tampone) ed adottare una terapia idonea in caso di gravi disturbi respiratori risolvibili solo con ventilatori automatici. Negli STATI UNITI a Chicago il 72% dei morti sono stati gli afro – americani,quelli con salute peggiore,con minore copertura assicurativa e che possono accedere a test e  cure con più difficoltà.Anche in Italia le minoranze sfortunate sono gli anziani,  i malati, i fumatori con un apparato respiratorio più sensibile alle infezioni.

I medici e gli infermieri che non potevano restare a casa, in quanto il dovere li chiamava, si sono infettati  e poi morti perché non adeguatamente protetti. Non si è compresa subito l’alta contagiosità del CORONAVIRUS, che doveva essere combattuto con adeguate protezioni,   testate con immediatezza se sufficienti ed idonee a proteggere da una infezione fino ad allora sconosciuta.Parlo per esperienza, in quanto come funzionario medico del MINISTERO DELLA SANITA’sono stato inviato con  personale del NAS  per il colera(1973) ed il terremoto(1980) ad organizzare i soccorsi e nell’immediatezza dell’evento è stato  difficile prendere decisioni importanti.

 Un altro problema che è emerso è il fatto che il diffondersi della pandemia nel nord italia è stato così repentino che subito si è avuto la carenza di respiratori per i casi più gravi anche per quelli che erano ricoverati in ospedale.Naturalmente si è data assistenza piena a questi pazienti e forse si è trascurato l’appello che proveniva dalle case di riposo e cura degli anziani, dove l’alta positività dell’infezione si complicava per alcuni pazienti, per i quali non vi era posto nei centri di rianimazione.Per alcune circostanze il problema non è stato preso in seria considerazione e quindi per molti pazienti, che necessitavano di cure appropriate, si è procastinato il trasferimento per mancanza di posto fino alla loro morte.

L’universalismo del diritto alla salute si è disgregato anche al nord Italia, per cui  durante questa pandemia le persone residenti nelle RSA non sono state considerate come i loro  bisogni reali di salute, data la scarsità di presidi diagnostici e terapeutici anche in emergenza.Questo è il motivo per cui il numero maggiore di morti si è verificato nelle RSA, dove il virus letale e la fragilità dei pazienti hanno contribuito ad aumentare la mortalità di anziani.

  Antonio molfese

 

 

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