Il primo maggio è la festa del lavoro, la festa dei lavoratori o la festa per il lavoro; è l’interrogativo che sovente si ascolta per strada in una sorta di lapsus grammaticale da parte di persone semplici, che affrontano il problema lavoro solo in quanto attività che consente di procurarsi i mezzi di sostentamento per il soddisfacimento dei bisogni di una famiglia.
Gli osservatori più forbiti della vita sociale e politica, e tutti quelli che hanno strumenti culturali di spessore un po’ più consistente, osservano il fenomeno nell’ambito di tutto ciò che intorno al lavoro succede, sia in termini economici che sociali.
Ma io invece vorrei soffermarmi a parlare di un debito che le generazioni precedenti hanno nei confronti dei loro figli e del credito enorme che le generazioni odierne hanno maturato nei confronti di chi lo è già o che si affaccia alla quiescenza. Mi riferisco a quanti percepiscono la pensione dalla veneranda età di trentanove anni sei mesi ed un giorno, riscuotendo, fino a oggi, più mensilità di pensione che di quante riscosse come lavoratori. Mi riferisco anche a quanti hanno pensioni dai numeri esageratamente sproporzionati rispetto a qualsiasi logica di consumo o benessere, un po’ rifacendomi al protagonista del romanzo di Nicolai Lilin quando dice al nipote che “un uomo non può possedere più di quanto il suo cuore possa amare” questo dice un criminale, un onesto criminale, come ama definirsi nonno Kuzja, magistralmente interpetrato, nella versione cinematografica, da John Malkovich.
Ma torno indietro, ad una citazione di una frase più sovversiva, fatta da un parroco che ha lasciato un segno ed un solco profondo nella società che cercava di risalire la china dopo i disastri del secondo conflitto mondiale; “l’operaio conosce cento parole il proprietario mille, ecco perché lui è il proprietario”. Credo volesse dire il padrone, ma questa è un’altra storia.
Che c’entra il romanzo di Nicolai Lilin e la potenza della considerazione di Don Milani. C’entra, nel mio ragionamento, nella misura in cui molti o tanti, hanno avuto accesso all’istruzione ed hanno abbondantemente superato lo sbarramento cui faceva riferimento il “presbitero”. Ma a cosa gli è servito superare le mille ed oltre parole a chi con una laurea sta in sella ad una Bicicletta a fare il rider? A cosa sia potuto servire la laurea per quanti non sono riusciti a trovare nulla se non un lavoro precario, a rinnovo mensile, dietro la consolle di un call center? Ma non è solo questo il debito nei loro confronti, perché tanti che hanno scelto la libera iniziativa sia essa in agricoltura, nel commercio o nell’artigianato oggi conoscono pure moltissime parole ma anche, ad esempio, la forza della grande distribuzione che nel frattempo il neoliberismo ha creato. Molti avranno pure deciso di restare a fare gli operai, ma nel frattempo l’ostacolo della grande distribuzione ha aperto la forbice del divario in maniera manichea tra il salariato ed il capitalista, diluendo la parte centrale della classe sociale e di quello che rappresentava la bassa e media borghesia. La grande distribuzione e la grande produzione, hanno praticamente messo Knockout i piccoli artigiani ed i piccoli commercianti di quartiere tanto che, fatta eccezione per qualche attività di nicchia, le saracinesche dei bottegai sotto casa sono definitivamente ed inesorabilmente abbassate.
Ed ecco il debito di cui dicevo sopra; ci sarà qualche politico che avrà responsabilità sulle scelte macroeconomiche che hanno determinato questa disparità di benessere tra i bisogni primari ed il superfluo? Qualcuno starà riflettendo sull’abisso che c’è tra lo stipendio di un CEO di grandi aziende multinazionali ed il guadagno di un padre di famiglia che pedala un giorno intero per consegnare merce di ogni genere?
C’è dunque un tradimento verso le generazioni che pur avendo imparato a conoscere più di mille parole non sono usciti dallo stato di inferiorità che prima veniva attribuito allo scarto di novecento parole? Hanno diritto queste generazioni a reclamare un credito di fiducia soffocato dalle alchimie capitalistiche che un dì sembravano essere peculiarità della conoscenza rispetto all’ignoranza? Siamo ancora sicuri che il potere è nelle mani di chi ha conoscenza di più parole rispetto a chi il potere lo deve subire?
Ecco, a mio parere, a cosa dovrebbe servire la giornata del primo maggio, a prendere coscienza, quella coscienza di classe che deve sollevarsi verso lo strapotere del capitalismo neoliberista affinché restituisca tutto il superfluo accumulato rispetto a chi il superfluo non lo ha mai conosciuto, pur conoscendo tutte le parole del mondo. Lo sciopero di Amazon del 22 marzo 2021 sarà mai ricordato un giorno come la giornata della ripresa di coscienza di una classe di lavoratori troppo vessata al cospetto delle retribuzioni a nove cifre dei CEO alla sommità della Piramide? Se il primo maggio servisse a prendere coscienza che il limite è stato raggiunto e che se non si riequilibra il sistema prima o poi potrebbe implodere, allora, credo, potremo riprendere il cammino verso un mondo dove l’uomo non sfrutti l’altro uomo. Altrimenti credo che i personaggi del quarto stato dipinti da Giuseppe Pellizza abbiano ben donde di tornarsene affranti e delusi come mostra la foto di copertina.
Gianfranco Massaro – Agos