Le promesse migliori sono quelle che si mantengono: “ti rivedrò fra 25 anni”, aveva promesso Laura Palmer all’agente Dale Cooper ed è stata di parola. Nel momento di massima risonanza delle serie televisive, David Lynch, il grande regista, produttore e sceneggiatore statunitense tanto visionario quanto onirico è tornato sul luogo del delitto con 18 nuovi episodi, prodotti da Shortime, che sono arrivati in contemporanea Italia su Sky Atlantic; il colpevole di questo è proprio Twin Peaks. Un successo atteso e confermato sino all’ultimo episodio di settembre, come si è visto dai tanti fans accorsi al Festival del Cinema di Roma, che lo scorso 4 novembre ha celebrato il genio di David Lynch, assegnandogli il Premio alla Carriera. Ciò che è certo, tra i tanti enigmi delle puntate, è che la narrazione audio-visiva di “Twin Peaks – Il ritorno” fa a pezzi ogni revival, nostalgie e attese dei telespettatori. Al centro del nuovo telefilm non c’è un solo omicidio, quello di Laura Palmer e il suo passato da scoprire: c’è, invece, l’anima della ragazza, che vede attorno a lei tanti corpi caduti; poi c’è l’anima di Dale Cooper, l’agente FBI scomparso 25 anni prima nella Loggia Nera – un luogo tra le dimensioni del bene e del male. Il clone maligno di Dale, alla fine della serie classica, lo avevamo visto posseduto da Bob, mentre ora Dale è mandato fuori dalla Loggia a recuperare il suo doppio, ma finisce per perdersi tra le dimensioni, incastrato nel corpo di un uomo morto da poco, Dougie Jones.
Proprio in questo nuovo uomo, Dale cerca di ritrovare le funzioni base: il pensiero e la connessione col tempo, mentre intorno a lui – a Twin Peaks e New York – la gente muore. Twin Peaks è una città manicheistica, perché è la città dei sogni a base di caffè e torte alle ciliegie pure ed è la città dei peggiori incubi, in cui i suoi grandi e verdi alberi nascondono qualcosa di orribile. Per il regista Lynch i misteri non vanno svelati ma vanno ampliati passando per due livelli: nel primo, ha adoperato immagini, suoni, rumori, oggetti, performance, distorsioni, i trucchi degli albori del cinema e la costruzione ritmica della sequenza, vicina a quella originaria di Hans Richter. In un secondo livello, è emerso il suo più grande gesto artistico, che è il giocare con il comico o il patetico, tra passato e futuro, senza un presente possibile. A differenza delle altre serie tv, Twin Peaks è un racconto seriale diverso dagli altri, perché ha come senso la viralità. Ciò vuol dire che Lynch è riuscito, in nell’epoca binge-watching imperante, a riportare lo spettatore ad aspettare 7 giorni per poter vedere il seguito di un episodio. Un grande regista, che viaggia con i suoi personaggi tra le epoche… e se vuole le inventa.
– Michela Castelluccio