Giuseppe Lupo si conferma un narratore speciale, uno che romanza la verità in maniera sublime. Ci racconta come abbiamo scollinato la vetta tra il XX ed il XXI secolo e l’incedere dell’umanità nei primi vent’anni, inframmezzati dall’emblematico spartiacque segnato da due Boeing che trafiggono le Torri Gemelle causandone l’implosione e la morte di migliaia di cittadini.
La storia è quella di un’amicizia che nasce nei corridoi di un pensionato Universitario, tra giovani provenienti da più parti dell’Italia. Un gruppo che non smarrisce la strada e ce la fa a non farsi confondere dalle sirene dell’opulenza della Milano da bere. Illuminata e frastornata dai cartelloni giganteschi di Ramazzotti, Roberta o dei neon psichedelici di Night e Discoteche.
TABACCO CLAN è la storia di giovanotti scanzonati e perbene, che affrontano le fatiche Universitarie inframmezzate da storie fatte di sogni di una vincita al Totocalcio o della conquista del cuore di una ragazza carina o, anche, del rischio di conciarsi ovvero farsi prendere dalla vocazione religiosa.
La storia si dipana con andamento sinusoidale tra ciò che è stato il gruppo di giovani del “TABACCO CLAN” e ciò che succede in un lussuoso Hotel sul lago Maggiore in attesa di una coppia di sposi che non arriva, a tal punto da celebrare le intenzioni delle Nozze e non le nozze stesse. Una scusa per riunire un gruppo di uomini, professionisti maturi che si interrogano sul loro passato e di ciò che sono nel presente per rappresentare il futuro dei propri figli. Al pari di ciò che furono i loro padri che ricostruirono l’Italia con quello che fu definito il periodo del boom economico.
Giuseppe Lupo, ci ha raccontato l’Italia del Boom, con “Gli anni del nostro incanto”, partendo da Milano, vista da un meridionale che portava la tuta del metalmeccanico della fabbrica Lambretta e che godeva di quel benessere che gli consentiva di avere un’automobile tutta sua, la Fiat 500, con la quale scendeva al suo paese d’origine quando le fabbriche, d’estate, chiudevano. In una sorta di viaggio all’indietro, verso le radici, dove tuttavia, pur dovendole abbandonare per sottrarsi alla quasi certa vita grama di un meridione ancora al pari della tartaruga al confronto con Achille, stavano i suoi ricordi e la necessità di poter mostrare d’avercela fatta.
Così come ci ha raccontato l’altro viaggio, con “Breve storia del mio silenzio”, con un altro verso di lettura rispetto al precedente; facendoci osservare l’Italia che camminava verso la ripresa. Senza cambiare alcunché rispetto alla bellezza di immergersi in un viaggio dei nostri anni e rivedere come eravamo e come avremmo potuto essere noi che siamo rimasti e quanti hanno realizzato i propri sogni andando all’alta Italia.
Giuseppe Lupo con “TABACCO CLAN” ci racconta la Milano da bere e la storia di un gruppo di amici che resiste sia alla metropoli tentatrice, sia ai terremoti giudiziari che diedero la stura al vaso di pandora al punto da cambiare l’Italia facendo addirittura pensare ad un’implosione sociale; amici che resistono anche al vento della lontananza, come cantava Modugno. Il CLAN ha resistito, tenendo a bada “l’erba della dimenticanza che seguitava a crescere nel campo della lontananza”, e si è ritrovato finalmente tutt’uno a giocare la partitella di pallone come ai vecchi tempi.
Ancora una volta il filo che mette ordine cronologico nel racconto è la cronaca e la musica di quegli anni. Un modo per raccontarci il nostro Paese, attraverso protagonisti che lo compongono con il loro fare ed il loro progredire; una storia inventata dal vero, dove la voce narrante, ne sono certo, è sì un piccolo chimico, ma che si occupa dei bilanciamenti delle parole e delle composizioni e della mescolanza tra elementi diversi della lingua. È un invito a riflettere, su ciò che siamo e ad interrogarci se abbiamo fatto tutto ciò che c’era da fare per consegnare ai nostri figli un mondo migliore.
Non so se sia un caso o una leggerezza inutile da raccontare, ma mentre scrivo, la radio trasmette, in una sequenza mixata, Max Pezzali con “E tutto va”, “Gli anni” e “Terra promessa” di Ramazzotti; brani molto distanti da quelli interpretati da Nat Barea, pianista del Grand Hotel Verbano sul lago maggiore, ma i testi, ascoltati a valle della lettura di TABACCO CLAN mi creano comunque una certa commozione.
Gianfranco Massaro – Agos