Lavoro

Uil e UilPoste: no alla privatizzazione di Poste Italiane


“La privatizzazione di Poste Italiane non solo può avere effetti negativi sui servizi e sui dipendenti del gruppo, che già in Basilicata registrano livelli di prestazioni al minimo ed insoddisfacenti ed organici inadeguati, ma può anche far perdere soldi allo Stato”. Lo sostengono Uil e UilPoste in una nota a firma dei segretari regionali Vincenzo Tortorelli e Domenico Potenza riferendo i risultati di uno studio elaborato da UilPoste ed Eures in cui viene sottolineato che “non può essere trascurato il processo di profonda trasformazione che interessa il mercato dei servizi postali, con cui il quadro normativo e regolatorio deve oggi necessariamente misurarsi”.

Lo stesso servizio universale, di cui Poste Italiane è fornitore sulla base di un contratto di programma (2020-2024) di prossima scadenza, richiederebbe secondo Uil e UilPoste sia “una ridefinizione del perimetro di azione”, in linea con il mutato contesto economico e sociale, che “una più attenta riflessione sul finanziamento degli oneri che ne derivano”.

Insomma, per la confederazione e il sindacato di categoria si tratta di “una privatizzazione senza prospettiva”. A distanza di quasi dieci anni dal provvedimento che ha comportato la cessione a soggetti privati del 35,74% del capitale sociale di Poste, ricorda la Uil, è stata avanzata dal Governo la volontà di alienare un’ulteriore quota della partecipazione detenuta dal ministero dell’Economia, mantenendo una partecipazione dello Stato al capitale di Poste, anche per il tramite di società direttamente o indirettamente controllate dal Mef non inferiore al 35%, lasciando quindi la maggioranza dell’azionariato in mano a soggetti privati.

Tra il 2025 e il 2027 si prevede di collocare sul mercato il 29,26% delle azioni di Poste attualmente in mano al Mef, con l’obiettivo di raccogliere 4,35 miliardi di euro da destinare alla riduzione dello stock del debito pubblico e dei relativi interessi. “Sul piano finanziario anche l’analisi più cauta evidenzia l’inopportunità dell’iniziativa sia per l’irrilevanza dell’impatto sul debito pubblico – sostiene il report – sia perché la raccolta di 4,35 mld tramite, per esempio, l’emissione di Btp risulterebbe enormemente più vantaggiosa rispetto al risultato ottenuto attraverso la cessione delle azioni: da alcuni anni infatti Poste Italiane è un’impresa finanziariamente solida, con ricavi in costante crescita, capace di generare profitti (1,9 mld di utili netti nel 2023) e di distribuire dividendi (861 milioni nel 2022 e un miliardo nel 2023) che, attualmente, entrano per il 64,26% nelle casse pubbliche”.

Al di là della insussistente razionalità finanziaria della nuova privatizzazione prefigurata per Poste, aggiunge il report, peraltro priva dell’argomentazione del salvataggio o del risanamento che ha accompagnato gli analoghi interventi del 1992-2016, “appare inoltre sottovalutato il ruolo strategico che la rete di Poste e la capillarità dei servizi erogati possono continuare a rappresentare per la collettività, anche in termini di presidio di prossimità, tanto più a fronte della crescente desertificazione delle attività dei servizi che caratterizza numerosi contesti urbani e aree interne”.

Un tema di forte preoccupazione riguarda anche la qualità del lavoro e i livelli occupazionali: “Già da diversi anni si assiste infatti a una contrazione del numero dei dipendenti di Poste, passati tra il 2013 e il 2022 da 143,8 mila a 121mila unità (-15,8% e -22.800 unità), così come a una loro precarizzazione.
Tra il 2016 e il 2022 l’incidenza dei lavoratori atipici di Poste, pur mantenendosi inferiore alla media degli altri contesti (anche grazie al forte ricorso alle esternalizzazioni dei servizi esecutivi), è più che raddoppiata, passando dal 3,2% del 2016 al 6,7% del 2022). Un azionariato prevalentemente privato potrebbe sostenere un’accelerazione di questi processi”.

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